“L’idea di questo lavoro mi venne mentre stavo esplorando l’Africa sud occidentale, nel 1850-51.
Durante quel viaggio, mi resi intensamente conto dell’impossibilità di ottenere informazioni sugli argomenti di cui esso tratta.
Ricordando come ogni viaggiatore escogiti per proprio conto delle trovate ingegnose per uscire da situazioni difficili, pensai di rendere un servizio utile a coloro che affrontano viaggi duri — siano essi esploratori, emigranti, missionari o soldati — nel raccogliere insieme in un libro le loro differenti esperienze.
Questo testo può, a ragion veduta, essere definito L’Arte di Viaggiare”.
l viaggio che fu per Galton la fonte di ispirazione di questo manuale si svolse nell’attuale Namibia, nei territori che ancora oggi si chiamano Ovamboland, Damaraland e Namaland, dal nome delle popolazioni che vi abitano.
Accompagnato da un naturalista svedese, egli sbarcò sulle coste desolate di Walvis Bay, che si trova quasi sul Tropico del Capricorno. Durante il viaggio, egli sperimentò di persona la difficoltà di viaggiare in contrade inospitali. La carovana procedeva con immensa fatica sulle aride dune e spesso si dovevano percorrere molte miglia prima di trovare un filo d’acqua. Forse questa sua esperienza spiega la minuziosità con la quale, nel capitolo dedicato all’acqua, Galton indica quali sono i segni della presenza di una falda d’acqua sotterranea, in un terreno apparentemente asciutto. Un’altra disavventura nella quale incorsero durante il viaggio fu quella di perdere i muli, lasciati incustoditi dal guardiano. Come non pensare che il paragrafo così dettagliato dedicato agli attrezzi e ai sistemi per assicurare gli animali sia stato ispirato proprio dal ricordo di quel disgraziato avvenimento?
Disavventure a parte, Galton ha sempre ricordato con piacere questo viaggio. È stato il più lungo e avventuroso da lui compiuto ed ha lasciato un segno nella sua vita, tanto da spingerlo a ritornarvi con il pensiero anche a distanza di molti anni. In particolare, egli lo aveva affrontato con lo spirito raccomandato negli avvertimenti. “Il viaggio è un piacere in sé ed è importante non avere fretta. Il viaggiatore non deve perseguire ansiosamente una meta perché, per cercare di realizzare il suo scopo, egli non godrà del paesaggio e della caccia e non potrà osservare con attenzione le abitudini di vita locali”.
Il cancello sud ovest dell’Etosha National Park, in Namibia, si chiama Galton Gate.
Porta il nome di Sir Francis Galton che, insieme a Charles Andersson, nel maggio del 1851 esplorava questa zona.
Per ovviare alla difficoltà di ottenere consigli utili e informazioni affidabili sulle scelte da fare nel corso del viaggio, considerando anche la scarsezza di rilevamenti e di mappe disponibili allora, al ritorno dal suo viaggio Galton si mise al lavoro. Cominciò a raccogliere i racconti dei viaggiatori sulle proprie esperienze e sulle usanze locali, scorse i quindici volumi dei Pinkerton ‘s Travels, una raccolta enciclopedica di racconti di viaggio e utilizzò in modo proficuo la sua esperienza di curatore dei Suggerimenti ai viaggiatori, una serie di opuscoli editi dalla Royal Society, che conteneva articoli di scienziati e studiosi.
Francis Galton (1822-1911) era segretario della Royal Geographical Society, l’associazione nata a Londra con lo scopo di promuovere i viaggi d’esplorazione. Fondata nel 1830, la società aveva sede in un elegante edificio al numero 1 di Savile Row. Il suo intento era anche quello di diffondere la conoscenza della geografia e, per raggiungere questo fine, i suoi membri organizzavano conferenze, pubblicavano periodici, libri e mappe. All’inizio, essa era formata da un gruppo di esploratori, riunitisi nella scia dell’Associazione britannica per l’Esplorazione dell’Africa, fondata nel 1788. Galton ne era stato prima il segretario onorario, dal 1857 al 1863, poi il vice presidente, dal 1866 al 1872 e dal 1879 al 1886. Aveva fatto parte del consiglio direttivo fino al 1893, quando si era ritirato perché afflitto da sordità. Nel 1854 gli era stata consegnata la medaglia d’oro del Fondatore. Egli si trovava quindi in una posizione privilegiata per collezionare e raggruppare in modo sistematico del materiale sempre aggiornato, che gli arrivava da ogni parte del mondo. Lui stesso racconta che conosceva personalmente molti viaggiatori, mentre con altri aveva un rapporto epistolare. “Poiché avevo contatti con tutti gli esploratori più importanti, ho cercato di fare un compendio di questa materia” ha scritto nella sua autobiografia Memorie della mia vita.
Se l’idea del libro gli era venuta durante il suo viaggio in Africa, un ulteriore stimolo per la sua Stesura gli venne dalla conoscenza delle sofferenze alle quali erano andati incontro i soldati britannici durante la guerra di Crimea, negli anni 1854-56. Egli era assolutamente convinto che esse si sarebbero potute evitare, se i soldati fossero stati meglio informati e preparati su come affrontare in modo efficace le durezze del clima e della vita di campo. Prese contatto con il Ministero della Guerra e si offrì di tenere gratuitamente delle conferenze sulle abilita necessarie per vivere in accampamento in condizioni climatiche avverse. “Ho lavorato molto duramente — dice nelle sue Memorie — per preparare un corso di istruzioni pratiche, che fosse utile, chiaro e ben strutturato”.
Il risultato della raccolta di informazioni si concretizzò nella prima edizione dì questo manuale, che vide la luce nel 1855. Aveva 196 pagine ed un formato adatto per essere infilato con facilità nelle tasche della tenuta da viaggio, la ‘bush shirt’ raccomandata da Gordon Cumming nel capitolo sull’abbigliamento. Il contenuto era un po’ diverso da quello attuale, dato che il libro era rivolto soprattutto ai viaggiatori che si recavano in Africa. Poi le edizioni si susseguirono e con ogni nuova pubblicazione il testo venne ampliato. Galton approfittò anche dei suoi viaggi in Europa, in Asia minore, in Egitto e in Sudan per collezionare nuovo materiale. Nel 1860, quando si recò sui Pirenei per osservare l’eclisse, osservò e disegnò con cura i sacchi a pelo dei doganieri francesi, di guardia ai contrabbandieri presso la frontiera. Fino ad allora, i sacchi imbottiti e impermeabili non erano usati per dormire all’aperto, in montagna o in luoghi freddi, e la descrizione dei loro pregi, fatta in questo libro, contribuì a diffonderne l’utilizzo.
Quarant’anni più tardi, nel 1893, il manuale giunse all’ottava edizione, con un numero di pagine quasi raddoppiato rispetto alla prima stampa. Era molto più professionale e ricco di tabelle, di formule, di diagrammi e di statistiche, frutto della passione di Galton per queste cose. Conteneva la descrizione di molte usanze locali, da come i tibetani si tengono caldi a come i cinesi impediscono agli asini di ragliare la notte, a come gli indiani cacciano le anatre selvatiche con una zucca infilata in testa. La maggior parte dei consigli sono di natura pratica. Fra questi, i rimedi per difendersi dal freddo, i metodi per pescare senza lenza, calmare la sete in mancanza di liquidi da bere, scrivere al buio, mantenere la rotta seguendo gli astri, seguire un sentiero di notte, tagliare un tronco con un coltello, scendere a cavallo da un pendio molto ripido, costruirsi un rifugio con materiale trovato sul posto. Alcuni suggerimenti, come quello di confezionare dei sacchetti di tè con del tessuto leggero, precorrevano i tempi, altri, invece, come quelli sull’organizzazione di una spedizione o sulla scelta dei regali per i selvaggi, sono un documento storico della mentalità di un’epoca ormai scomparsa, come sono scomparsi gli usi e i costumi delle popolazioni descritte. Alcune indicazioni, come quella sul modo di evitare la carica di un animale infuriato o quella di cospargere le api di farina e poi seguirle per trovare il miele, ci sembrano un po’ stravaganti, altre, come l’arte di fare il tè o quella di arrotolarsi le maniche nel modo giusto, sono certamente frutto della pedanteria dell’autore, che doveva essere una persona di una minuziosità esasperata. Alcuni consigli, come la preparazione di trappole per animali o l’operazione di tagliare una bistecca dal posteriore di un bovino senza ucciderlo, ci sembrano oggi francamente crudeli e la nostra sensibilità ecologica ci provoca un sussulto davanti al suggerimento di fabbricare le staffe con la pelle di giraffa o di rinoceronte. Non so se qualcuno possa attualmente essere tentato dalle ricette del pemmicam fatto in casa, fornite dallo scienziato e viaggiatore dell’Artico Sir John Richardson e da Ballantyne, agente della Hudson Bay Company e oggi avremmo forse qualche esitazione anche davanti all’eventualità di farci inserire dei gioielli sotto la pelle, da usare in pagamento come se fossero dei traveller’s cheques.
Un paragrafo che può sembrare impressionante per la quantità di articoli consigliati è quello dedicato all’equipaggiamento. Se lo si legge con attenzione, però, si vede che l’attrezzatura per uso personale è abbastanza contenuta. La maggior parte del bagaglio è costituita da attrezzatura per uso scientifico. In quegli anni, infatti, insieme all’esplorazione del territorio, che aveva raggiunto il suo apice, si andavano sempre più sviluppando attività dirette a ricavare dati informativi di carattere geografico e scientifico. Fra i partecipanti alle spedizioni vi erano i naturalisti, che studiavano la flora e la fauna; i geologi, che studiavano la composizione delle rocce; i geografi, che studiavano la morfologia e l’orografia del terreno; gli antropologi, che studiavano le popolazioni locali.
Esploratori ed esplorazioni
L’attività di esplorazione è nata insieme all’uomo, all’homo sapiens delle pianure africane, ed è continuata ininterrotta sino ai nostri giorni. Diverse sono state le ragioni che nel corso dei secoli hanno spinto le persone a partire verso territori sconosciuti o a solcare nuovi mari: commerciali, religiose, di conquista o, semplicemente, la curiosità di conoscere l’ignoto o il desiderio di trovare migliori condizioni di vita. I nuovi apporti sono stati tenuti in considerazione e studiati e, grazie ad essi, si è giunti alla conoscenza del nostro pianeta quale l’abbiamo oggi. Per quel che riguarda l’Europa, i viaggi iniziarono nel bacino del Mediterraneo, con scambi fra i popoli che ne abitavano le coste. Poi, con i Romani, l’orizzonte geografico si allargò a nuove regioni. A partire dal XIII secolo, i progressi furono legati anche alla navigazione. La scoperta del Nuovo Mondo, la via dell’Oriente, la ricerca della terra Australe, le imprese audacissime nell’Oceano Pacifico si sono susseguite ed hanno contribuito a perfezionare la conoscenza dell’estensione e della distribuzione delle terre e delle acque. Da un paio di secoli a questa parte, anche le montagne hanno cessato di essere viste come luoghi attorniati da un’atmosfera magica e l’alpinismo si è sempre più diffuso, prima in Europa, poi negli altri paesi.
Uno dei continenti la cui mappa, alla metà del secolo scorso, aveva ancora molti spazi vuoti era quello africano. Galton racconta di due missionari, Krapf e Rebmann, di stanza a Mombasa, che non vennero creduti quando diedero la notizia di aver visto in lontananza una montagna dalla cima ricoperta di neve. Ma il Kilimangiaro non era l’unico enigma dell’Africa. Misteriose sono state, per lungo tempo, le sorgenti del fiume Nilo e misterioso il fiume Niger, di cui non si conoscevano le sorgenti, né il percorso né lo sbocco al mare. Alcuni lo consideravano un affluente del Nilo e la sua esplorazione impegnò per decenni esploratori di diverse nazionalità. Malgrado lo scetticismo, però, le informazioni che giungevano da paesi lontani attiravano l’attenzione di tutti e, a poco a poco, come racconta Galtòn nel XII capitolo delle sue Memorie, l’esplorazione geografica diventò un argomento di interesse generale. Ad ogni viaggio, gli esploratori portavano indietro nuove conoscenze ed esperienze personali: Livingstone, Burton, Speke, Grant, Stanley e Barth dall’Africa, Rae dall’Artico, Huc dalla Cina, Burke, Wills, Sturt e Leichardt dall’Australia. Essi contribuirono con le loro informazioni all’ampliamento del manuale.
Livingstone era un missionario scozzese che non soltanto provvide a tracciare la carta di una buona parte del continente africano, ma fece molto anche per fermare il commercio degli schiavi. Nel 1849 egli raggiunse il Lago Ngami, attraverso il deserto del Kalahari, e nel 1855 individuò le cascate Vittoria. Seguì il percorso del fiume Zambesi fino alla foce e, fra il 1858 e il ‘64, esplorò l’Africa centrale ed orientale, raggiungendo i laghi Shirwa e Malawi. Dal 1866, egli cercò di individuare le sorgenti del Nilo. Nel libro egli è citato, fra l’altro, per aver impiegato, nell’esplorazione del sud Africa, delle barche di caucciù, che Galton definisce impareggiabili. Occorre dire che spesso l’attività di esplorazione è andata di pari passo con la caccia, essendo questa un’aggiunta alla prima, utile a garantire la sopravvivenza dei partecipanti alla spedizione. Per questo motivo, Galton si rivolge di solito ad entrambe le categorie.
Livingstone stesso ha compiuto alcuni dei suoi viaggi più importanti in compagnia di cacciatori famosi. Uno di questi era William Cotton Oswell, che nel testo è citato per aver escogitato un copricapo formato da un cappello panama senza tesa, messo come fodera a un ‘wideawake’, un berretto morbido di feltro, dalla tesa larga e dal cocuzzolo basso, molto usato dai viaggiatori. Anche Samuel White Baker, uno dei viaggiatori più citati nel manuale e definito “grandissimo esperto nell’arte di fare i bagagli”, non si sarebbe mai sognato di partire per l’Africa se non fosse stato spinto dal suo amore per la caccia. Nel 1861, insieme alla moglie Florence, comprata ad una vendita all’asta di schiavi nei Balcani quando aveva 17 anni, partì per scoprire le sorgenti del Nilo. Esplorò il lago Vittoria, su di una canoa ricavata da un tronco scavato ed individuò per primo il lago Albert Nyanza, che oggi si chiama Mobutu Sese Seko, nell’Africa centrale. Scoprì che il Nilo scorre attraverso di esso e aggiunse in questo modo un altro anello alla catena di informazioni sulle sorgenti del Nilo. Molti sono i suoi suggerimenti, riportati da Galton: la corteccia di fico come materiale per fare vestiti, la protezione in ferro per l’impugnatura a pistola del fucile, una particolare lega di metallo per fare i proiettili, la pelle dell’animale abbattuto usata per trasportare sull’acqua la sua stessa carne.
Alcuni anni prima, nel 1856, il Foreign Office aveva incaricato Richard Burton, il traduttore delle Mille e una notte, che nel 1853 aveva compiuto un pellegrinaggio alla Mecca sotto mentite spoglie, di esplorare le sorgenti del Nilo. Egli partì nel 1858 insieme a Speke, ma fu costretto dalla malattia a fermarsi nei pressi del lago Tanganika. Speke continuò il viaggio fino al lago Vittoria e sostenne che quella era la sorgente del Nilo, cosa che confermò dopo una seconda spedizione fatta con Grant. Speke è forse l’unico esploratore citato nel testo ‘in negativo’, in occasione di due scelte che lo mettono in cattiva luce. La prima è nel paragrafo dedicato al diario di viaggio e ai quaderni degli appunti. Galton dice che Speke si era portato dietro una grande quantità di quaderni, senza tenere conto della limitatezza dei mezzi di trasporto ed è stato costretto a buttarli via quasi tutti all’inizio del viaggio, perché erano troppo pesanti. Inoltre, le sue osservazioni, per quanto minuziose, mancavano di metodo e non avevano quasi alcuna utilità. La seconda è nel paragrafo dedicato alle cinture e alle bretelle. Galton dice che Speke non dava nessuna importanza a queste cose e che per tenere su i pantaloni usava un semplice nastro passato dentro a un orlo cucito all’altezza della vita. Questi due aneddoti ci inducono ad attribuirgli una certa trascuratezza nel lavoro e nel vestire.
Ma il primo bianco ad avventurarsi nell’Africa centrale fu Mungo Park, partito nel 1795 per esplorare il corso del Niger. A causa delle orribili traversie, raccontate nel suo libro Una storia semplice e senza ornamenti, dopo due mesi di viaggio tutti i suoi compagni erano morti o lo avevano abbandonato. Egli proseguì da solo, costretto a vivere di elemosina e a dipendere completamente dall’aiuto dei locali, dopo essere stato alleggerito delle poche cose che possedeva. Subì vessazioni di ogni genere, sputi, umiliazioni e persino la prigione. Dopo tre mesi riuscì a scappare e seguì per 100 miglia il corso del fiume, senza un soldo, affamato, stremato dalla malaria e dalla dissenteria. Messo in salvo e rientrato in patria, ritornò in Niger dieci anni dopo, con un gruppo variegato di 45 membri delle forze armate, la maggior parte dei quali lo avevano seguito nella speranza di un congedo anticipato dal servizio militare. Ma la stagione era quella sbagliata e, nel caldo torrido, i soldati si liquefacevano sotto le pesanti uniformi militari. Gli asini morirono per le punture delle vespe; le guide locali furono fatte frustare a morte dai capi-tribù delle regioni attraversate; i leoni attaccarono la carovana di giorno e i cani selvatici di notte; i coccodrilli divorarono alcuni componenti della spedizione mentre nuotavano. Soltanto dodici di loro arrivarono in Niger, per morire quasi tutti di febbre. Con i quattro sopravvissuti, Park comprò una canoa, che si rivelò essere di legno marcio e iniziò la discesa del fiume. Furono attaccati dai locali con missili e frecce avvelenate, vicino alle rapide denominate Bussa. Le munizioni per rispondere finirono presto. Resisi conto di essere perduti, si abbracciarono stretti ed abbandonarono la canoa alla corrente fortissima. Precipitarono nella rapida e non furono mai più ritrovati.
La lettura del suo libro, Da solo in Africa, fa venire in mente il libro di Galton, per le relazioni di affinità che vi sono e anche per qualche elemento di differenza. Egli racconta per esempio che, dovendo attraversare un profondo guado con il suo cavallo, provvide prima a sistemare i suoi appunti ed il giornale di viaggio nel cocuzzolo del cappello, poi portò il cavallo vicino all’acqua, lo spinse dentro, prese le briglie fra i denti e si mise a nuotare accanto a lui. Un comportamento ‘da manuale’ per quanto riguarda la prima parte, un po’ meno per la seconda, dato che Galton, nel paragrafo dedicato all’attraversamento di un guado con un animale, sconsiglia di nuotare a fianco della bestia. A parte questo punto, Park è uno dei viaggiatori i cui suggerimenti ricorrono più spesso nelle pagine del libro. Lo ritroviamo nei paragrafi su come impedire a un cavallo di nitrire, come trasportare le zanne d’avorio, come riuscire a conservare la propria libertà di movimento in viaggio (considerando la fine che ha fatto, questo consiglio sembra un po’ paradossale) e sulla gentilezza delle donne.
La maggior parte degli esploratori citati da Galton sono britannici, ma fra di essi vi sono anche alcuni stranieri. Uno di essi è il tedesco Heinrich Barth, citato a proposito del màkara, un’imbarcazione africana fatta con le zucche, del ‘daterám’, per assicurare le corde della tenda, e dell’inchiostro essiccato da portarsi dietro in tasca. Egli era ingaggiato e sponsorizzato dal governo britannico, per conto del quale, fra il 1844 e il 1855, stabilì il percorso esatto del fiume Niger. Esplorò anche il Sudan occidentale e il Sahara, che attraversò partendo da Tripoli e percorrendo il territorio compreso fra il lago Chad e il Cameron. Egli rese giustizia a René Caillié, un francese che, venuto a conoscenza del premio di 10.000 dollari messo in palio dalla Società Geografica di Parigi per chi avesse fornito notizie su Timbuctu, città da leggenda, da tutti creduta composta di case dai tetti d’oro massiccio e di biblioteche stracolme di manoscritti rari e preziosi, decise di andarci. Dopo dieci anni di apprendistato, durante i quali prese parte a diverse spedizioni nelle regioni malsane dell’Africa occidentale, nell’aprile del 1827 partì alla scoperta della città esotica. Superò i rilievi montuosi costieri della Guinea settentrionale e si perse nelle vaste paludi malariche del bacino del Niger. Arrivato al fiume, cambiò gli ultimi soldi nella moneta locale, le ‘cowrie’, ovvero le conchiglie di ciprea. Comprò un posto su una delle sconquassate canoe che andavano a Timbuctu ed affrontò un viaggio da incubo, fra le minacce di morte dei predoni Tuareg e quelle di soffocamento causato da enormi balle di cotone rovinategli addosso. Caillié disegnò e descrisse Timbuctu così com’era, un villaggio come tanti, luogo di passaggio di carovane che caricavano e scaricavano merci. Come era già avvenuto ai missionari che avevano parlato del Kilimangiaro, Caillié non venne creduto. La descrizione che egli fa dello scorbuto che lo aveva tormentato, “il palato scorticato, le ossa che si staccavano a strati, i denti che cadevano... 15 notti senza chiudere occhio, con la paura che il dolore così acuto mi danneggiasse il cervello...”, ci ricorda come questa terribile malattia fosse molto comune fra i viaggiatori.
Galton dice di averne sofferto egli stesso durante il suo viaggio in Africa, a causa della dieta esclusivamente carnivora. Ma lo scorbuto non era l’unica causa che portava i viaggiatori prima a una estrema debolezza e a un deperimento organico progressivo, poi alla morte. All’inizio del capitolo sul cibo, quando l’autore dice che esso deve essere non soltanto nutriente, ma anche digeribile, egli fa cenno a Robert O’ Hara Burke e William Wills, esploratori del continente australiano, che morirono d’inedia, perché il loro stomaco non riusciva ad assimilare i semi della marsilea, di cui si nutrivano gli aborigeni. Insieme a John King, l’unico che sopravvisse, essi furono i primi ad attraversare il deserto australiano da sud a nord, da Victoria al golfo di Carpentaria. Purtroppo, lungo la via del ritorno, quando giunsero stremati a Cooper’s Creek, dove avrebbero dovuto trovare ad attenderli il gruppo di soccorso (secondo uno schema simile a quello fornito da Galton a p. 265), scoprirono che gli uomini erano appena ripartiti e non avevano lasciato provviste nascoste. Si compì così una delle tragedie più terribili della storia dell’esplorazione, raccontata da Wills nel suo diario, ritrovato accanto al suo scheletro.
Nel paragrafo che fa parte della premessa, dedicato agli scopi del viaggio, Galton dice che se non si hanno sufficienti risorse finanziarie per viaggiare, si può sempre andare in Australia a cercare terra per i pascoli per conto dei proprietari terrieri locali. Effettivamente questo continente, più di altri, venne esplorato dai pionieri che cercavano nuovi territori per insediarsi e nuovi pascoli per le loro mandrie. Il diario di uno di loro, Edward John Eyre, ricorda in alcuni punti il manuale di Galton. Egli racconta, per esempio, di essersi trovato con i compagni in pericolo di vita per la disidratazione causata dalla mancanza d’acqua e di aver cominciato a scavare, spinto dalla disperazione, nel punto più improbabile che si potesse immaginare: la cresta di una grande duna di sabbia bianca, vicino alla spiaggia. Nel sottosuolo, vi era una piccola pozza d’acqua dolce che salvò loro la vita. Secondo quanto scrive Galton a p. 192, il trovare acqua dolce sotto la sabbia della spiaggia non è poi così infrequente. In un altro punto Eyre scrive: “Acqua, acqua, acqua... la parola ricorre come un ritornello nei diari degli esploratori. Il volo degli uccelli, una macchia più scura nella vegetazione, la traiettoria di un guado prosciugato, persino l’insediamento di un uccello solitario in una pianura desolata, sono tutte indicazioni che segnalano la presenza dell’acqua...”. Sembra di leggere, e non potrebbe essere altrimenti, il paragrafo che Galton ha dedicato ai segni della presenza dell’acqua.
In Australia non mancarono esploratori importanti, che venivano da altri paesi. Fra questi, Sturt e Leichhardt, che, nel 1844, si diressero verso il centro dell’isola, portandosi dietro un’imbarcazione. Si supponeva infatti che, poiché questo paese ha pochi fiumi che sfociano in mare, dovesse esserci nella parte centrale una regione di laghi. La spedizione riuscì però soltanto ad arrivare ad un ampio corso d’acqua, 150 chilometri prima del punto stabilito. Egli ebbe dalla Royal Geographical Society la medaglia d’oro per non aver raggiunto la destinazione che si era prefisso. La motivazione fu la seguente: la differenza fra un buon esploratore e un esploratore morto è che il primo ha sufficiente saggezza per decidere quando è il momento di rinunciare.
Due anni prima dell’uscita dell’Arte cli viaggiare, aveva visto la luce un libro scritto da un missionario cattolico francese, l’abbé Huc. Egli raccontava, con prosa elegante e divertente, il suo viaggio a Lhasa, attraverso la Cina e la Tartaria. Huc era arrivato nella capitale del Tibet nel 1846, insieme al confratello Gabet, dopo aver soggiornato per otto mesi alla frontiera nord-est, proveniente dalla Mongolia. La sosta era servita per studiare la lingua tibetana e il buddismo. A Lhasa furono scoperti e immediatamente riaccompagnati alla frontiera, ma il loro scopo era raggiunto. Erano stati i primi europei ad arrivare nella capitale del Tibet. Fra i tanti suggerimenti di Huc ricordiamo: il sistema per tenere lontane le pulci; quello per impedire agli asini di ragliare; la ricetta per cucinare le felci e le ortiche; il sistema tibetano per continuare a ottenere latte da una mucca che ha perso il vitellino.
Anche le spedizioni verso l’Artico, compiute a piedi e con le slitte, tirate da uomini o da cani, erano in pieno svolgimento e grazie ad esse, verso la fine del secolo scorso, quasi tutte le zone attorno al Circolo Polare Artico erano conosciute. Il primo esploratore occidentale dell’Artico è stato il Dr. John Rae, del quale è riportata a p. 173 la tabella delle razioni giornaliere da lui distribuite ai compagni, “gli esploratori più forti e vigorosi che siano mai esistiti”. Rae, il cui nome è oggi purtroppo dimenticato e il cui contributo alla stesura della topografia di quasi duemila miglia di costa artica è caduto nell’oblio, è stato un viaggiatore di grande sensibilità, che adottò il modo di spostarsi, di nutrirsi, di vestirsi degli Esquimesi e consigliò agli altri esploratori di fare lo stesso. Per questo suo atteggiamento, in anticipo sui tempi, venne deriso. Gli venne detto che le esplorazioni erano una cosa seria, non un’occasione “to go native”, cioè di assumere i costumi indigeni e fare la stessa vita degli abitanti del luogo. In realtà, adottando le tecniche di sopravvivenza delle popolazioni locali, egli ha messo in pratica molte delle cose consigliate da Galton. Invece di erigere una tenda, Rae si costruiva un iglò; invece di trainare una slitta, portava un sacco legato alla schiena nel modo descritto a p. 283; per proteggere gli occhi si era fatto un paio di occhiali da neve, come quelli descritti a p. 67,mutilizzando un osso di balena al posto del legno; invece di portarsi dietro il cibo, imparò a utilizzare tutto quello che di commestibile offrivano la flora e la fauna locali. Seguendo questi criteri, fra 1841 e il 1855 egli guidò quattro spedizioni, coprendo 23.000 miglia, la maggior parte dei quali a piedi e cartografò 1700 miglia di costa. Scoprì da terra il Passaggio a Nord-Ovest, che le navi della Marina Reale cercarono a lungo per mare. Rae è ricordato principalmente per aver trovato i resti della spedizione di Franklin, finita tragicamente. Egli disse anche di aver trovato prove di avvenuti episodi di cannibalismo, ma non fu creduto. Gli venne fatto notare che i gentiluomini inglesi non hanno l’abitudine di divorarsi l’un l’altro.
La spedizione al comando di Sir John Franklin era in ricognizione nel Mar Glaciale Artico, a nord del Canada, alla ricerca del famoso Passaggio a Nord-Ovest. Ne faceva parte anche il Dr. John Richardson. Galton, infatti, dando la ricetta del suo pemmicam, dice che egli lo aveva portato dietro nel suo ultimo viaggio. Restati senza cibo ad affrontare l’inverno, gli uomini furono costretti a sopravvivere mangiando i licheni, che loro chiamavano tripe de roche e il cuoio delle calzature. Galton non fa i nomi, ma quando, nel capitolo sul cuoio, egli accenna al fatto che il mangiare la pelle delle proprie scarpe ha salvato o prolungato la vita a molte persone, si riferisce anche a loro. Alla ricerca di queste navi partecipò anche il Dr. Elisha Kent Kane, che nel testo è citato per i suggerimenti sul modo di ridurre al minimo il bagaglio, per la costruzione di schermi dietro ai quali nascondersi per cacciare la selvaggina e per aver ideato un segnale fatto con la polvere da sparo. La scelta di fare la stessa vita degli indigeni era già stata fatta da un altro esploratore dell’Artico, Samuel Hearne, viaggiatore americano, citato nel libro a proposito del vantaggio di avere delle donne nella spedizione. Egli era un ufficiale della Hudson Bay Company, una compagnia che portava il nome del navigatore ed esploratore inglese del secolo XVII, Henry Hudson, che trovò la morte vicino all’isola di Salisbury, abbandonato dagli uomini del suo equipaggio che si erano ammutinati, mentre compiva un viaggio di esplorazione alla ricerca di un passaggio a NE o a NO.
La compagnia della Hudson Bay controllava un vasto territorio canadese ed aveva molte stazioni costiere, situate presso le foci dei fiumi. Queste stazioni erano anche dei centri di raccolta delle pellicce, in particolare di quelle di castoro, particolarmente abbondanti nella zona. Nel 1769, Hearne fece un viaggio nelle Tundre Desolate, i Barren Grounds, che si concluse in un disastro. A differenza di ciò che emerge dal pezzo citato da Galton, la causa del fallimento dei suoi primi due viaggi non è stata la decisione di non includere donne nella spedizione. In realtà, Hearne venne abbandonato in mezzo ai ghiacci, dopo essere stato derubato di tutte le provviste, dagli indiani Chipewyans, suoi compagni di viaggio. “Mentre se ne andavano — racconta l’ufficiale — si prendevano gioco di me sghignazzando e sfidandomi a ritrovare la strada di casa”. Egli racconta di essere sopravvissuto mangiando qualche coniglio e qualche porcospino, presi con un laccio artigianale. I giorni in cui non riusciva a cacciare nulla, egli metteva in pratica uno dei consigli di Galton e masticava la pelle bollita della sua giacca. Questa disavventura non lo scoraggiò minimamente e un anno dopo ripeté l’esperienza. Stesso luogo, stessi indiani, stesso finale: derubato della tenda, delle scarpe da neve, degli abiti pesanti, delle provviste e delle mappe. Miracolosamente, apparve dal nulla Matonabbee, il capotribù di questi indiani, che lo salvò. Divenuti amici, compirono insieme delle esplorazioni. John Charles Frémont è menzionato nel libro per aver ideato un riparo formato da tre fucili disposti a piramide e ricoperti con un tessuto. Egli era un uomo politico ed un esploratore degli Stati Uniti occidentali, in particolare del territorio situato fra il Mississippi e la costa della California. La ragione della sua esplorazione era la costruzione di una strada in direzione est-ovest, che doveva attraversare tutto il continente. Nel 1842, egli scalò le Montagne Rocciose, una delle cui vette oggi porta il suo nome.
L’esplorazione dell’America meridionale è rappresentata nel libro dall’Ammiraglio Fitzroy. Egli è citato, nel capitolo sulle barche, a proposito di una barca-canestro. Galton dice di averne incluso la descrizione per dimostrare come pressoché qualsiasi oggetto possa essere trasformato in una imbarcazione. Fitzroy era amico di Charles Darwin, era al comando del Beagle ed era anche impegnato a cartografare le coste di quel continente.
Il capitano William Bligh, ammiraglio britannico che accompagnò il capitano Cook nel suo secondo viaggio in Polinesia, nel 1787 era al comando del Bounty in una spedizione sul Pacifico, verso Tahiti. Nel viaggio di ritorno, a causa della dura disciplina a bordo, l’equipaggio si ammutinò e Bligh venne costretto, con 18 degli uomini rimastigli fedeli, a salire su di una scialuppa, lasciata andare alla deriva. Essi erano senza mappe e con poche provviste, ma sopravvissero tutti, dopo aver percorso 3600 miglia. Nel libro è riportato il consiglio di Bligh, frutto della sua drammatica esperienza, di combattere la sete immergendo i vestiti in mare e provvedendo a mantenerli sempre umidi.
Oltre al suo e a quelli fin qui menzionati, nel testo compaiono i consigli di molti altri importanti viaggiatori ed esploratori che, spesso a prezzo di sofferenze e di sacrifici incredibili, hanno fatto cadere le barriere dell’ignoto, lasciando un patrimonio di esperienza a disposizione di chi oggi, in un contesto molto diverso, non rinuncia al fascino dell’avventura.
AVVERTIMENTI
Requisiti del viaggiatore.- Se avete salute, desiderio di avventura, una piccola fortuna su cui contare ed avete in mente una destinazione che non sia considerata impraticabile da viaggiatori esperti, allora non esitate a partire. Se in più avete conoscenze ed interessi scientifici, io credo che non vi sia nessuna occupazione che possa offrirvi, in tempo di pace, maggiori vantaggi di quella di viaggiare. Se non disponete di mezzi economici, potete sempre trasformare il viaggio in un’opportunità redditizia, come cercare terreni da destinare al pascolo in Australia, abbattere elefanti per l’avorio in Africa, cacciare esemplari da collezione per poi venderli a musei di storia naturale oppure guadagnarvi da vivere come artisti.
Pericoli.- Un uomo giovane e di costituzione robusta, che si accinga ad intraprendere un viaggio già sperimentato da viaggiatori esperti, non corre grossi rischi. Basti citare le spedizioni incoraggiate dalla Royal Geographical Society, nelle quali molto raramente vi sono stati dei morti e pochissimi di questi erano giovani. I selvaggi raramente uccidono i nuovi arrivati, perché temono i loro fucili ed hanno una paura mista a superstizione dei poteri dell’uomo bianco. Occorre del tempo perché si rendano conto che egli non è molto diverso da loro e che lo si può eliminare facilmente. Le febbri ordinarie raramente sono fatali per l’organismo resistente di un giovane, che normalmente riesce a sopravvivere bene per due o tre anni alle avversità della vita primitiva.
Vantaggi del viaggiare.- Uno dei vantaggi del viaggiare è l’aura di distinzione che il viaggio conferisce. Se si compie il viaggio in un paese che desta l’interesse di coloro che sono rimasti a casa, si sarà invidiati da chi non ha avuto l’opportunità di fare altrettanto. Per non parlare poi dei vantaggi scientifici, che sono enormi. Si può vedere in quale modo opera la Natura non contaminata dall’uomo e conoscerla sotto nuovi aspetti. Oltre a ciò, si ha tutto il tempo di cercare risposte a problemi che attraggono l’attenzione per la loro novità. Il giovane viaggiatore può avere la sorpresa, proprio grazie ai suoi interessi scientifici, di essere ammesso al cospetto di scienziati che egli aveva conosciuto prima soltanto